Roberto De Virtis for Altrisuoni

All photos © 2006 Roberto De Virtis - All rights reserved Reprinted with permission. Copyright © 2007 Altrisuoni and Roberto De Virtis. In Italian language.

2007: Roberto De Virtis for Altrisuoni

"New York è l'ombelico del mondo ma la musica è ovunque..."

Non sta mai fermo. Mi ricorda un po’ lo squalo, in perenne movimento anche quando dorme, costretto da Madre Natura alla necessità fisica di fare sempre qualche cosa. Ecco, Joe Fonda è così, ti dà l’idea di un’energia immensa trattenuta a stento in quel corpo. Quest’energia, prima o poi, deve trovare uno sfogo, una via d’uscita per incanalarsi verso l’esterno e lo fa quando Joe imbraccia il suo contrabbasso e suona: un’esperienza travolgente, estremamente ’fisica’ prima ancora che concettual-musicale, suono e sudore. Anche quando non suona, la sua voglia di comunicare, di farsi capire dagli altri, lo tradisce e sai già cosa sta per dire ancor prima che le parole escano dalla bocca: ogni fibra del suo essere, ogni espressione del volto, gesto o risata, perfino il movimento dei baffi è proteso a trasmettere il suo pensiero all’interlocutore.

Gli occhi sono quelli del bambino che guarda il mondo con meraviglia e curiosità mai sazia, la stessa curiosità che lo sospinge da oltre trent’anni sui sentieri della ricerca musicale e della sperimentazione jazzistica, cercando di conciliare tradizione e avanguardia. Dagli esordi negli anni Settanta e dopo il primo album da leader (Looking for the Lake, 1980), sono innumerevoli gli artisti che si sono avvalsi del suo talento crescente (da citare almeno Archie Shepp, Anthony Braxton, Lou Donaldson, Bill e Kenny Barron, Perry Robinson, Dave Douglas, Curtis Fuller, Mark Whitecage, Marion Brown, e Bill Dixon).

Compositore e musicista poliedrico, performer votato all’interdisciplinarietà, Fonda ha partecipato alle esperienze più disparate: il Creative Musicians Improvisors Forum diretto da Wadada Leo Smith; la Tricentric Foundation di Anthony Braxton (della quale è stato anche presidente); la American Tap Dance Orchestra diretta da Brenda Bufalino; la Fred Ho’s Jazz and Peking opera; la Sonomama Dance Company (anche come ballerino).

Il sodalizio più lungo è forse quello con il pianista Michael Jefry Stevens, con il quale collabora nel Fonda/Stevens Group e nel più recente Conference call (insieme a George Schuller e Gebhard Ullmann).

C’è anche un ’pezzetto’ d’Italia nel mondo di Joe Fonda: si tratta del pianista pescarese Carlo Morena che ha inciso due dischi (What We’re Hearing nel 1994 e Step-In nel 2000) in trio con il bassista newyorchese e Jeff Hirschfield alla batteria.

Abbiamo incontrato Joe proprio in occasione di un breve tour in Italia con Carlo Morena (a loro si sono aggiunti, di volta in volta, Tony Arco e Ferdinando Faraò alla batteria e Riccardo Luppi ai sassofoni) e di un breve soggiorno a Venezia.

altriSuoni: Allora Joe, che ne pensi di Venezia? Mi pare che questa sia la tua prima volta in laguna...

Joe Fonda: E’ fantastica! Venezia è sempre stata uno dei miei sogni e l’Italia è un posto incredibile. Avete tutto: storia, arte, cibo, belle donne...
Venezia potrebbe essere la capitale europea della cultura: non c’è nessun altro posto che io conosca che può vantare la stessa storia, la puoi sentire ovunque nell’aria. Credo che Venezia riesca a tirar fuori il meglio da un artista che vi si esibisca o che ci lavori: tutta questa bellezza, quest’arte che ha ispirato scrittori, pittori musicisti continua tuttoggi ad essere una grande fonte d’ispirazione. Purtroppo ho avuto l’impressione, parlando con la gente del posto, con i negozianti e anche con altri turisti, che Venezia venga considerata un luogo del passato. E’ sbagliato! Il suo passato è davvero enorme ma questo la rende un posto ancora più importante oggi, nel presente. Sotto il profilo musicale vedo poco movimento: so che alcuni musicisti della scena contemporanea hanno cominciato ad esibirsi anche qui ma dobbiamo portare a Venezia il jazz e le altre attività artistiche ancor più su vasta scala e fare in modo che il mondo si accorga che qui le arti sono vive e vegete.
Personalmente mi piacerebbe davvero poter suonare qui, spero di tornare presto...

aS: E noi ci auguriamo di averti qui come nostro ospite, non solo in veste di turista. A proposito, cosa sai della scena musicale di casa nostra?

J.F: A dire il vero non ne so molto, anzi spero di imparare sempre di più ogni volta che vengo a suonare in Italia. So che ci sono molti bravi musicisti e un sacco di amici miei - tra cui Herb Robertson, Dewey Redman (scomparso di recente, n.d.r), Brenda Bufalino - hanno collaborato con molti di loro, riportandone sempre giudizi entusiastici. E poi ci sono tutti gli album prodotti arrivati dalle label italiane: quelli della Soul Note sono stati fondamentali per molti di noi, ma anche quelli della Black Saint...

aS: Per quel che puoi dirci della tua esperienza personale (Joe ha un trio stabile con il pianista pescarese Carlo Morena e con George Schuller, n.d.r) che differenze trovi tra l’Europa e gli Stati Uniti?

J.F: Non penso che sia possibile mettere i due continenti sullo stesso piano perchè non sarebbe... ’carino’. Se prendiamo New York come termine di paragone si potrebbe pensare che al confronto tutte le altre scene musicali spariscano, il che non è vero. New York è un concentrato: è il ’fulcro’ di questa musica da molto tempo, abbiamo tanti musicisti che ogni giorno lavorano per creare qualcosa. In questo modo si genera un sacco di energia in un’area piuttosto ristretta. Lavorando con Carlo, mi auguro davvero di conoscere i musicisti italiani - so che ce ne sono di ottimi - e voglio farmi conoscere da loro. Carlo è una grande pianista ed un musicista molto preparato e sono davvero felice di averlo conosciuto e di lavorare con lui da quindici anni. Anche i musicisti con cui ho suonato in questo tour sono fantastici: Riccardo Luppi è grande e quel batterista che hai sentito anche tu, Ferdinando (Faraò, n.d.r) è semplicemente meraviglioso. E anche Tony Arco non scherza...

aS: Mi pare che gli italiani non siano gli unici con cui collabori: vieni spesso in Europa e porti avanti diversi progetti con musicisti europei. Che puoi dirci al riguardo?

J.F: E’ vero, lavoro molti con musicisti europei. Il jazz - se mi passi il termire - è la vera world music, ovunque ci sono grandi musicisti che suonano jazz e improvvisano. Trovo grande piacere e fonte di ispirazione nel suonare con musicisti di ogni parte del mondo: ognuno di loro mi dà un punto di vista diverso sulla musica, è una cosa che non ha prezzo!

aS: Adesso, se non ti dispiace, parliamo di come hai cominciato a suonare...

J.F: Ho cominciato molto presto: a dieci anni sapevo già di voler fare il musicista. La prima cosa che ho fatto è stata costruire la mia prima chitarra con una scatola di cartone: l’ho disegnata, l’ho ritagliata, ho trovato dei lacci per fare la tracolla. Ho messo su il mio disco di Jimi Hendrix e ho cominciato a suonare...

aS: Da Jimi Hendrix sei passato ai gruppi di Anthony Braxton, dal Creative Musicians Improvisers Forum all’American Tap Dance Orchestra, dalla Sonomama Dance Company al KaleidoscopeArts and interdisciplinary perrformace ensemble, per non parlare degli altri progetti, il Fonda-Stevens Group e Conference Call: un gran bel salto...

J.F: Per me fare musica significa includere ogni possibilità. Charlie Parker, Braxton, Mozart, Schönberg, Hendrix... per me è tutta musica, parte di un unico continuum. Mi sono sempre interessato molto alle altre discipline, alla danza, al teatro, alla medicina: trovo che siano tutte collegate tra loro. E’ per questo che ho sempre cercato di curare progetti che coinvolgessero allo stesso tempo più di una disciplina. Penso che abbiamo molto da imparare dai pittori, dai danzatori, dai poeti: dobbiamo lavorare insieme per imparare gli uni dagli altri.

aS: Prima hai parlato dell’improvvisazione: cosa significa per te improvvisare?

J.F: E’ un punto molto interessante. L’improvvisazione è una tradizione che puoi trovare nelle musiche di tutto il mondo, quello che cambia è il modo di organizzare l’improvvisazione. Quando suono con musicisti diversi me ne accorgo subito: alcuni ’sentono’ la musica allo stesso modo in cui la sento io, altri no. Di solito mi diverto molto a suonare con musicisti affini al mio modo di suonare, ma a volte suono con musicisti che hanno una concezione completamente diversa dalla mia e le cose funzionano lo stesso a meraviglia. Non succede molto spesso ma quando succede...

aS: E l’altra faccia della medaglia? A cosa pensi quando componi la tua musica?

J.F: Quando compongo per lo più è tutta roba che viene fuori spontaneamente quando è pronta: mi succede quando suono il contrabbasso, quando sono seduto al pianoforte o quando sono al volante della mia auto e guido. Ma quando mi siedo a tavolino e dico "ok, adesso componiamo qualcosa" sono molto legato alla forma, alla struttura: mi sento come un architetto che progetta i suoi palazzi. Se ci pensi ci sono molte ’stanze’ nelle strutture della composizione...

aS: Sei considerato uno dei grandi esponenti della moderna avanguardia: che ne pensi?

J.F: Questa storia dell’avanguadia!!! E’ un termine vecchio ormai, non credo che si possa più applicare a quello che c’è in giro oggi. Penso che se suoni musica atonale o tutto ciò che non viene suonato nei soliti ritmi (4/4, 3/4, 7/8), beh questa è avanguardia. Arrivati a questo punto noi utilizziamo tutto quello che abbiamo a nostra dosposizione: tonalità, atonalità, ritmo, assenza di ritmo oppure 25 ritmi allo stesso tempo, molta energia, nessuna energia.
Non c’è nessuna avanguardia: solo gente che suona e cerca di cogliere tutte le opportunità possibili.

aS: Nella tua carriera hai scritto diversi pezzi dal contenuto politico. Di recente mi è capitato di ascoltare il tuo live con la Nu Band e proprio uno dei brani che avete suonato, Four of Them, è un atto d’accusa contro chi ha voluto la guerra in Iraq. Pensi che la musica possa ancora incidere sulla politica e sulla società?

J.F: Penso di sì. Musica e politica possono contribuire insieme ad un cambiamento, rendendo la gente più consapevole. Four of Them voleva fare proprio questo: ho scoperto che questi quattro signori (quattro membri influenti dell’amministrazione governativa in carica negli Stati Uniti, n.d.r.) erano tra coloro che avevano progettato da tempo l’invasione dell’Iraq. Quando sono andati al potere e sono riusciti a metterla in atto, non ce l’ho più fatta a trattenermi e ho scritto il pezzo.

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